Spiderman: Across the Spiderverse e le cose belle a metà
Perché non solo l'occhio vuole la sua parte I
A quattro anni e mezzo dal predecessore e capostipite della saga, uscito a dicembre 2018, nei giorni scorsi ha fatto il suo debutto Spider-Man: Across the Spider-Verse, stavolta circondato dall’aura di attesa e attenzione che meritava dall’esordio. Il marketing ha investito abbastanza da fidarsi e lasciare, anche qui da noi, il sottotitolo originale (il primo, “Into the Spider-Verse”, era stato tradotto in un più digeribile “Un nuovo universo”).
E tanto vale dirlo da subito, Spider-Man: Across the Spider-Verse è un film visivamente spettacolare, ancora più del primo capitolo, e non fatica a stabilirlo nei primi 30-40 minuti. Alcuni momenti sono capaci di emozionare, per come sono messi in scena. Ambizione e inventiva trasformano colori e ritmo in simboli, talvolta fino ad astrarli, letteralmente facendo sparire tutto il resto.
- MA -
Avendo stabilito che il film è visivamente spettacolare, possiamo aggiungere che il contenuto narrativo non è all’altezza della controparte estetica, né regge il confronto con la storia del predecessore, altrettanto densa ma più equilibrata e, soprattutto, intera. Purtroppo, Across the Spider-Verse soffre di tutti i difetti tipici dei film divisi in due parti (e il fatto che esista un “tipo” di questi difetti non è una buona notizia).
Prima di proseguire, due motivi sintetici per cui leggere questo articolo, qui e ora:
Across the Spider-Verse è un film superiore alla media degli esemplari analizzati nelle puntate precedenti (Fast X, Guardiani Vol. 3). Ciononostante, non è esente da difetti, e vale la pena, forse ancora di più, sottolinearli e confrontarli alla luce dei suoi pregi;
è un’occasione d’oro per analizzare i problemi congeniti del “film a puntate”, fenomeno che oggi si riaffaccia con prepotenza e testimonial autorevoli (Dune, Fast X, questo Spider-Man, Mission Impossible: Dead Reckoning). Sono problemi inevitabili? Certe storie si possono raccontare solo in più parti?
La calma è la virtù dei corti
L’inizio di Across the Spider-Verse è la sua parte più solida. Il film si prende il tempo necessario per raccontarci, di nuovo e dall’inizio, la storia di Spider-Gwen, questa volta dal suo punto di vista, come fosse lei la protagonista. L’investimento emotivo nel prologo non manca di culminare in una sequenza d’azione e emozione incredibili.
Questo investimento continua a riecheggiare per il resto del primo atto, quando da Gwen torniamo al protagonista “ordinario” della saga, Miles Morales, cresciuto e maturato, sì, ma mai abbastanza da dimenticare gli eventi, e le persone, che gli hanno cambiato la vita.
Le sue interazioni con Gwen prima che si metta in moto la trama principale sono oro colato su pellicola, valorizzate da una scelta fondamentale del primo capitolo: l’uso di una relazione in potenza.
Dal secondo atto, purtroppo, questo sentimento si rarefà. Il ritmo si alza, le cose da spiegare si moltiplicano, e le ragioni diegetiche dei personaggi per stare alla larga dalle emozioni (bene) lasciano il posto a quelle extra-diegetiche della pellicola (male). Non c’è più tempo di fermarsi, neanche per un attimo, fino alla fine. Che poi, “fine”; diciamo fino ai titoli di coda.
Questo costituisce una lezione preziosa: la calma nel raccontare una storia vale tanto, quanto più spende, in proporzione, del tempo totale impiegato per quella storia. Non importa che oggi si lavori in digitale e “il girato” non sia più associato al costo della pellicola; il tempo, come il denaro, è ancora una risorsa dal valore fortemente relativo.
Si percepisce la forza della parte iniziale solo finché la trama non comincia a gonfiarsi esponenzialmente. A quel punto capiamo che ci aspetta una lunga serie di deviazioni prima di poter tornare lì, a quei momenti preziosi. Capiamo che forse quegli stessi momenti erano considerati una tappa, non il cuore della storia, e il loro ritorno ci appare (non a torto) lontanissimo.
La calma, dunque, non è qualcosa che può esserci solo in assenza di sintesi, anzi, dovrebbe essere il suo complementare e inseparabile rovescio della medaglia.
(Aperte parentesi)
Per quanto divertenti, e originali, e visivamente d’impatto, non tutte le parentesi che il film apre sono strettamente necessarie. Una regola d’oro della narratologia è che quel che non è necessario, è di troppo.
Nella writer room lo sanno bene, perciò in ogni segmento viene inserito qualcosa che aggiunge conflitto tra il modo di essere Spider-Man di Miles e quello di Spider-Man 2099 (doppiato in originale da un minaccioso Oscar Isaac, contrapposto allo Spider-Dad-joke di Jake Johnson).
In realtà, però, questi dettagli aggiungono sale a un piatto già salato (devo smetterla con le analogie culinarie; forse basta smettere di scrivere in pausa pranzo). Miles, parola di cattivo n°2, è già di per sé un’eccezione incompatibile con la filosofia e il protocollo della Spider-Squadra; i guai che il ragazzo combina inaspriscono la situazione, certo, ma sortiscono l’effetto collaterale di allontanarlo e allontanarci dal cattivo n°1 proprio quando questo si fa davvero spaventoso e inquietante.
Per non parlare dei dettagli che non aggiungono conflitto. Per esempio: tutti i riferimenti reiterati al Marvel Cinematic Universe, o ai film in live-action di Spider-Man & Co. La mole di personaggi, informazioni e meta-informazioni di questo film è tale che finisce per comprimerne equilibrio e sensibilità.
Ricordo sensazioni simili nel passaggio tra la prima e la seconda stagione di True Detective. Anche in quel caso sono aumentat* protagonist* (tutti volti noti di Hollywood), vicende, false piste, scazzottate e battute ciniche. Anche in quel caso il risultato non si è avvicinato alla chimica e al lirismo dell’esordio con Woody Harrelson e Matthew McConaughey.
La verità è che si potrebbe perdonare tanto, forse tutto, a questo film, se fosse capace di consegnarci, alla fine, un arco soddisfacente. Il che non significa chiudere tutte le questioni in sospeso; sapevamo, prima di entrare in sala, che Across the Spider-Verse sarebbe stato una “parte prima”. Ma basta questo a giustificare un film che, al momento dei titoli di coda, non restituisce alcun senso di compiutezza?
Non chiamatelo cliffhanger
Sì, tecnicamente il film si conclude con un cliffhanger duro e puro, ma non è questo il punto. Il punto, e il problema, è proprio quello di concludere un film con un cliffhanger.
Un film esiste per ritagliare nell’oceano caotico delle nostre vite una finestra di due-tre ore da cui osservare una storia con un preciso senso compiuto. Se la storia viene divisa in due parti, ovvero in due film, allora anche le finestre di senso dovrebbero essere due.
Immaginate di entrare in un museo, pagare il biglietto a prezzo intero per la “Mostra di Eugène Delacroix - Parte I” e trovarvi di fronte NON la metà delle opere dell’artista francese, bensì la singola metà di ogni suo quadro.
Alcuni difendono il cliffhanger, in quanto scelta consapevole di autori e registi; ma il fatto che sia consapevole non la rende per forza una scelta legittima, o meglio, non ne legittima di per sé il risultato (di errori e scelte sbagliate ho scritto anche qui).
Dover aspettare probabilmente più di un anno (la data di uscita del seguito, Beyond the Spider-Verse, è il 29 marzo 2024, ma già si vocifera di ritardi) per la conclusione di una storia da pagare a rate, senza ricevere a rate un minimo senso di compiutezza, è una purissima, e ovviamente consapevole, operazione commerciale.
Esistono film non episodici che chiudono alcune questioni mentre ne lasciano altre aperte o semi-aperte (L’Impero colpisce ancora), o film episodici strutturati in modo da dare senso e integrità alla prima parte (Dune parte I), tutti dotati di un vero finale. Constatare che un film come questo, per certi versi davvero bello e coraggioso, abbia scelto di imboccare questa strada dispiace il doppio. Forse il triplo, se consideriamo quanto il predecessore abbia significato per il cinema, per i supereroi e per me.
Inutile girarci attorno: Severo ma Giusto deve essere severo anche con “i buoni”, vale a dire quelli che ci piacciono, o ci piacevano, e sono cambiati, magari solo un po’.
Al cinema, e non solo al cinema, c’è bisogno di un finale, per quanto aperto (Inception), che consegni al fruitore un messaggio. E un messaggio per ogni capitolo di ogni saga, ogni quadro, scultura, foto, pièce, tragedia, barzelletta, racconto breve, lungo, parte I, parte II, prologo, epilogo, interludio, intermezzo, pubblicità, prequel, what if, remake; serve sempre un messaggio, per dare senso alla fruizione.
Un finale è una cosa importante, altrimenti tanto vale che l’articolo