Dalla parte di chi sbalgia
Il titolo è giusto, l'errore di battitura voluto, l'articolo parla di questo: sbagliare
Un paio di settimane fa, in questa newsletter, mi è capitato di non accorgermi del più banale dei typo da correzione sopraggiunta: un soggetto è passato dal singolare (originale) al plurale, mentre il verbo, che lo precedeva, è rimasto al singolare. L’errore è sopravvissuto solo qualche secondo sull’articolo in questione, abbastanza però per essere inviato via mail a tutti gli iscritti di allora (c’eravate già?). Non è una tragedia, in realtà, è normale, succede.
Dopo due settimane, però, mi capita ancora di pensarci. E visto che mi ero ripromesso di scrivere un pezzo atipico e “conoscitivo”, quando gli iscritti fossero cresciuti (e lo siete!), questo allegro misfatto me ne fornisce il pretesto. Si potrebbe dire che Severo ma Giusto rispecchi il mio lato perfezionista: in fondo, qui si cerca di attribuire il “giusto” peso ai difetti di opere altrui.
Prima di continuare, però, occorre chiarire un punto fondamentale: io e questa pagina siamo dalla parte di chi sbalgia sbaglia.
Fare o non fare, non c’è sbagliare
In una cultura performativa come la nostra, percepiamo lo sbaglio come possibile fonte di stigma sociale. La stessa cultura, però, ci spinge anche a comprimere tempi e moltiplicare abitudini, sovra-esponendoci, per un fatto una questione puramente statistica, alla possibilità di sbagliare.
Sbagliare è umano, lo sappiamo; può capitare a tutti, sappiamo anche questo. Eppure, la percezione che abbiamo dello sbaglio è simile, con le dovute proporzioni, a quella di una malattia: ci conforta sapere che capita, quando capita a qualcun altr*. Quando capita a noi, lo stesso fattore non ci conforta granché.
Ma cosa c’entra questo, con Severo ma Giusto?
C’entra perché lo stesso meccanismo si applica, in modo problematico, a tutto il mondo della creazione artistica e produttiva, dal singolo individuo che apre una newsletter, al gruppo di attori che mette in scena uno spettacolo, alla produzione titanica che investe milioni in un film o in un videogioco: l’errore va evitato a tutti i costi.
Cosa significa sbagliare per un individuo
Si può affrontare la paura di sbagliare, o ignorarla, ma non annullare il rischio di sbagliare. L’unico modo di stare completamente al sicuro è rinunciare a ciò che ci espone a quel rischio. Ma questo atteggiamento danneggia inibisce il nostro potenziale creativo.
Allora si può imparare a convivere con la paura, cercando costantemente di mantenere ridurre al minimo le possibilità di sbagliare, preparandosi, controllando e ricontrollando, e ricontrollando ancora. In fondo, come insegna il Dottor Cox a J.D. (Stagione 4, episodio 4 di Scrubs):
Ti svelo un segreto: la paura è buona. Ti impedisce di diventare un medico schifoso. Il trucco è non lasciare che ti paralizzi. Ma non preoccuparti, novellino, è sicuro che prima o poi ucciderai qualcuno. Potrebbe succedere in ogni momento!
Peccato che un approccio così prudente e scrupoloso richieda un ammontare cospicuo di tempo e risorse mentali e materiali, che talvolta i ritmi delle produzioni artistiche o professionali non concedono quasi mai. Quindi?
Quindi non è solo tanto la paura di sbagliare che va normalizzata, ma lo sbaglio stesso. E non in astratto, o nel giudicare altr* autor*; per noi e per le nostre opere, in cui abbiamo sbagliato, sbagliamo e sbaglieremo ancora.
Nei campionati sportivi più densi, le squadre forti sanno che dovranno accettare di perdere qualche partita; le squadre più esperte sanno già quali partite accetteranno di perdere (occhio alla metafora, però: la mentalità competitiva tende a condannare gli errori).
Cosa significa sbagliare per una produzione
Perdere soldi.
Sbagliare è umano, scegliere è diabolico
C’è differenza tra sbagli e scelte sbagliate, quantomeno nella visione di questa sviolinata questo articolo. Uno sbaglio, come inteso fin qui, è per sua natura accidentale; una scelta è un atto consapevole che, semmai, produce effetti indesiderati (anche gravi).
D’altronde, questo articolo nasce in occasione di un typo, un banale e comunissimo errore di battitura. Non è comune che lo stesso accada a una produzione. Cos’è un typo, per un film? Una battuta che rompe la continuity di una saga pluri-decennale? Un’asta da microfonista che fa capolino nell’inquadratura?
Parafrasando De Gregori, non è mica da questi particolari che si giudica un autor*. Un autor* lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia. E un produttor* dalla quantità di entrate che procura. Per questo, la produzione media orienterà le proprie scelte in modo da fare sempre più entrate possibili. E non è che le entrate dispiacciano alla figura maledetta mistica dell’autor*, ma potrebbero dispiacergli i compromessi necessari a racimolarle.
L’obiettivo supremo di una produzione è creare qualcosa che piaccia a tutti; quello di un autor* è creare qualcosa che parli a tutti.
Gli opposti si attraggono (e si odiano)
Dunque, a un estremo dello spettro creativo c’è la completa indipendenza: massima autorialità, nessun compromesso, alto rischio di sparire nell’oblio. All’altro estremo c’è il colosso capitalista con la sua galassia di opere multimediali, che alle tante figure professionali sovrappone e dà priorità assoluta alle ragioni di mercato.
Tra i due poli, queste dinamiche convivono, qui e là in proporzioni diverse, incontrandosi e scontrandosi nella maggior parte dei casi.
Molte opere passano da un versante all’altro: Star Wars (proprietà Disney dal 2012) nasce come idea coraggiosa e autoriale; nel 1977, la produzione (20th Century Fox) credeva così poco nella riuscita del film che in sede di contratto concesse una larga fetta di proventi all’autore, e George Lucas fece una fortuna.
Da queste dinamiche nascono altre tendenze interessanti, come la sindrome del secondogenito: il secondo capitolo di una saga è spesso il suo anello debole, ma nei rari casi in cui non lo è, si rivela un capolavoro assoluto (L’Impero colpisce ancora, Il Padrino - Parte II, Batman: Il Cavaliere oscuro, The Last of Us - Parte II).
Questo perché, dopo l’investimento rischioso di un esordio soggetto a dubbi e timidezze, il secondo capitolo diventa il momento decisivo in cui scegliere se accomodarsi sul successo appena conquistato o rilanciare e rischiare di nuovo.
Non ti curar di lor, ma sbaglia e passa
Il cerchio si chiude sul proposito di questa newsletter, la cui severità è solo apparentemente in contrapposizione con la dichiarazione di intenti per cui Severo ma Giusto è dalla parte di chi sbaglia.
Normalizzare lo sbaglio autoriale, da una parte, e dall’altra sottolineare scelte produttive sbagliate (come la trappola del voler accontentare tutti, per esempio, in Hogwarts Legacy), contribuisce a distruggere la visione perfezionista e manichea per cui le opere, per esistere, devono essere grandi successi o sonori fallimenti.
Una visione che influisce non solo sul mercato, ma pure sulla critica e sul suo giudizio. Una visione affascinante, sì, ma fondamentalmente sbagliata.