Barbie Missione Impossibile
Tom Cruise vuole salvare il cinema. Greta Gerwig vuole scuotere il mondo
In tutto il mondo (o quasi) il 21 luglio sono usciti, insieme, due dei film più attesi di questo 2023: Barbie e Oppenheimer. Agli antipodi nel marketing e nell’umore, le due produzioni rivali hanno saputo sfruttare, in tutto il mondo (o quasi), la forza virale del celebre meme noto come “Barbenheimer”, che ha spinto milioni di spettatori a vedere entrambe le pellicole a breve distanza, se non addirittura lo stesso giorno.
Da una parte, il film su licenza Mattel girato da Greta Gerwig (Lady Bird, Piccole donne), scritto da lei e dal marito Noah Baumbach (Storia di un Matrimonio, Rumore Bianco).
Dall’altra, il biopic di Christopher Nolan sull’inventore della bomba atomica, con un cast composto da Cillian Murphy, Florence Pugh, Robert Downey Jr., Emily Blunt, Matt Damon, Rami Malek, Gary Oldman, Josh Hartnett, Casey Affleck, Kenneth Branagh…
Due film del genere, nello stesso giorno: ci pensate? Potete continuare a pensarci, perché in Italia l’uscita di Oppenheimer è stata posticipata al 23 agosto, per evitare la temuta e attesa sovrapposizione concretizzata - pare, con buoni risultati - in tutto il mondo (o quasi).
Si potrebbe anche aprire una parentesi sulla forte dissonanza cognitiva creata dal fatto che, benché i due film non siano lontanamente vicini nella programmazione dei cinema nostrani, il meme di “Barbenheimer” sia stato comunque rilanciato in pompa magna dai portali italiani di cinema, con abbondantissime immagini sui social che vedono i due film dividersi, e in realtà unire, fasce complementari di pubblico.
Si potrebbe aprire, questa parentesi, ma non qui e ora. Qui e ora, siccome vogliamo parlare comunque di due film insieme, parliamo di Barbie e Mission Impossible.
Prima le donne Tom Cruise
Togliamoci subito il dente: il settimo capitolo di Mission Impossible, il cui titolo intero è Mission Impossible: Dead Reckoning - Parte Uno, è, come avrete forse intuito, una “parte uno”. Le due metà del film intero sono state girate l’una a ridosso dell’altra, ma la seconda uscirà, a meno di ritardi (non improbabili, visto l’inasprirsi dello sciopero di sceneggiatori e attori a Hollywood), a giugno 2024.
In questa newsletter, abbiamo già discusso di film divisi in due parti, in particolare con Spider-Man: Across the Spider-Verse e Fast X, e lo abbiamo fatto sinora in modo molto critico. In estrema sintesi:
dividere un film in due parti non può essere un pretesto per ricorrere a un cliffhanger totale e a un finale monco, senza il minimo senso di risoluzione, sia pure aperto o precario. Dead Reckoning - Parte Uno, per fortuna, è dalla parte giusta della barricata.
La vicenda che il film racconta, oltre che puntuale in modo inquietante visto che le riprese risalgono al 2019, non finge mai di potersi chiudere già alla fine della parte uno; tuttavia, quest’ultima arriva dopo due ore e mezza a un punto di sospensione soddisfacente, che restituisce un senso compiuto all* spettator* pagante, oltre a non frustrarl* nell’attesa annuale della conclusione.
Per quanto riguarda il giudizio sul film in sé, anche questo è positivo. Tom Cruise, i cui ultimi inciampi sul grande schermo risalgono al secondo Jack Reacher e al reboot de La Mummia (2016 e 2017, brutto biennio per lui), si è specializzato tanto in un tipo di film da incarnarlo, ormai, e diventare garanzia di intrattenimento.
Attenzione: in questo caso l’intrattenimento non è la maschera di altre lacune; i Mission Impossible sono film divertiti e divertenti, che fanno di ritmo, sorpresa e azione il proprio cuore pulsante e tachicardico. Forse perché a 61 anni si ostina a voler interpretare davvero tutti i suoi stunt, Tom sembra custodire le chiavi del cinema d’azione fatto “come si deve”, o quantomeno “come una volta” (spesso nel bene, talvolta nel male).
Anche se fosse - probabilmente lo è - un’illusione nostalgica, questa regge e continua a reggere, appuntamento dopo appuntamento, molto meglio della CGI goffa di decine (decine) di altri film contemporanei, che sul comparto tecnico dirottano a pioggia investimenti sottratti al reparto scrittura; così pare, dai risultati. Tanto per fare un esempio, la distanza tra la sequenza del treno di Indiana Jones e il Quadrante del destino e quella del treno di Dead Reckoning è siderale.
Non è neanche giusto dar credito al solo Tom Cruise, che si concede tra l’altro qualche narcisismo, come in Top Gun: Maverick. I comprimari fanno tutti un buon lavoro: Ving Rhames, Simon Pegg, Rebecca Ferguson, Vanessa Kirby.
Ottima prova, poi, di Haley Atwell, che al suo esordio nell’IMF porta un inedito senso di coraggio “tremolante” con cui è difficile non empatizzare, invece di andare verso lo stereotipo dell’agente segreta espertissima e del tutto inscalfibile.
Forse, dove il film soffre di più è proprio nel volto dell’antagonista; ruolo delicato, in un film sull’intelligenza artificiale. Esai Morales non convince fino in fondo, anche per un retro-inserimento un po’ invadente nel mito fondativo di Ethan Hunt.
Paradossalmente, colpisce di più la sua spalla, una Pom Klementieff finalmente libera, dopo anni, dai panni stretti, strettissimi di Mantis, una delle 14 o 15 linee comiche dei Guardiani della Galassia.
E alla fine arriva Barbie
Dopo una lunga, lunga attesa, tra rulli e tamburi battenti della macchina del marketing, composta da Mattel da una parte e Warner Bros. dall’altra, arriva nei cinema il film di Greta Gerwig sulla bambola più famosa del mondo. Un film che oggi, col senno di poi, era facile prevedere, o addirittura ritenere prevedibile, ma prima non lo era affatto.
Era piuttosto chiaro che si sarebbe affrontata, in qualche modo, la questione femminista, ma il punto non era quello, il punto era proprio:
come?
Io stesso ero scettico, quasi rassegnato all’arrivo di un film “di plastica”, che affronta solo le questioni più ingombranti, denunciandole en passant, e usa il suo stesso buon esempio per auto-esonerarsi dall’approfondire davvero o estendere la propria area di interesse.
Invece, Barbie osa molto di più di quanto mi aspettassi. Gerwig (coadiuvata in scrittura da Noah Baumbach) ci presenta un film consapevole e intelligente, pur fingendo di essere l’esatto contrario: semplice e ingenuo.
Tra le premesse iniziali, a Barbieland, le bambole sono così infantili che parlano esplicitando il sotto-testo: “Riesco a mettere insieme ragione e sentimento (citazione non testuale, vado a memoria aiutandomi con Jane Austen) senza che questo mi svaluti, anzi, questo mi dà valore”. Parlare col sotto-testo è un’infrazione del codice aureo di Hollywood, e del dramma in generale, a cinema a teatro; ma la scelta di Gerwig non è circostanziale, o puramente iconoclasta, è intenzionale e chirurgica.
Quando Barbie si scontra col mondo reale, il suo esplicitare il sotto-testo, le sua sensazione strisciante di irrequietezza a contatto con un sistema aggressivo, maschilista e capitalista, incide sulla pellicola battute chiarissime, fatte di parole, non sguardi o inquadrature, parole, impossibili da ignorare. Poco importa se il costo è infrangere una regola di Hollywood (che, tra l’altro, è parte del sistema).
E questo è un esempio, non isolato, della tessitura brillante del film.
Tutto ciò che si poteva (e quindi doveva) criticare, viene criticato, e apertamente. Ogni piccola incoerenza viene prima esposta e poi riassorbita, per mettere sempre l’obiezione in scena. Certo, la coperta non è lunga uguale in ogni angolo del letto, e facendo bene attenzione si intravede un pizzico di fumo e specchi dove, evidentemente, non tutto è stato concesso all’auto-critica.
I dirigenti Mattel, per esempio, capitanati da Will Ferrel, dopo essere stati rimbeccati per essere tutti maschi, e aver risposto con giustificazioni tristemente familiari (“Io maschilista? Ma come, io amo le donne!”), diventano così parodistici da depotenziare l’intensità della critica loro rivolta. Appaiono problematici, sì, ma pure innocui.
Altrove, alla climax del conflitto, si usa il classico trucco Disney dell’intermezzo semi-comico per abbassare la temperatura drammatica. Almeno qui succede una volta sola.
Compaiono le bambole ritirate dal mercato; persino Midge, la bambola incinta, fa una fugace apparizione (bene!), ma non si fa in tempo a spiegare perché è stata ritirata dal mercato (male!): era venduta, incinta, senza un compagno.
Questi stessi difetti, però, sono indizi contrastanti di un dato fondamentale: un film del genere, realizzato in questo modo, non era affatto inevitabile.
Inutile negare che, dietro al film, ci sia una volontà espansionistica e una scelta di marketing smaccatamente capitaliste, di Mattel (ma pure di Warner Bros.), e non possiamo permetterci di assolverle, o dimenticare che politiche come quelle sono nemiche della parità di genere. Capitalismo e femminismo sono inconciliabili.
Tuttavia, come è importante ricordare da dove viene, non possiamo dimenticare dove va, e fin dove arriva. Sarà forse troppo romantico pensare che Gerwig abbia sfidato Mattel a un gioco di indovinelli, infilando nel film più strati di quelli che loro (e noi?) riuscissero a distinguere, ma è impossibile che lei non si sia posta, per prima, il problema di salire su questo palco, per parlare a milioni di persone.
Il fatto che sia il prodotto di un sistema capitalista è un elemento di cui tenere assolutamente conto, nel giudicare Barbie, ma non può essere anche il risultato finale del nostro giudizio, e sterilizzare tutto quello che, invece, il film fa e poteva benissimo, come tanti suoi predecessori, non fare.