Fast X e tutte le strade che portano a Roma
Cosa c'è da imparare da un film che lascia poco spazio all'immaginazione
Qualche giorno fa, ho convinto un’amica sceneggiatrice e cinefila ad accompagnarmi a vedere Fast X, ultimo figlio della grande “famiglia” di Fast & Furious, saga inaugurata nel lontano 2001 e assurta oggi, sequel dopo sequel dopo spin-off, ad autorevole franchise del cinema d’azione (c’è differenza; ci arriviamo).
Sempre io e lei, il mese scorso, abbiamo assistito a John Wick 4, avendolo generalmente apprezzato, a testimonianza del fatto che non si tratta di persona completamente digiuna dal genere action. Eppure, dopo la visione, ha definito Fast X uno dei film più brutti che avesse visto negli ultimi anni.
La mia prima reazione è stato chiederle se avesse visto, due anni fa, il nono capitolo. Ha risposto: “Certo”. Le ho chiesto se ne fosse sicura. Ha risposto: “Certo. Il 9 è quello con il sottomarino, no?”. No, il 9 è quello con la macchina nello spazio. L’8 è quello con il sottomarino. Non preoccuparti, le ho detto, l’effetto Mandela è normale, con Fast & Furious.
Prima di proseguire, un paio di motivi per cui leggere quest’articolo, anche se (o soprattutto se) non siete fan di Fast & Furious:
Arrivato al decimo capitolo, il franchise esibisce ancora, e con un certo orgoglio, topos “letterari” risalenti ai suoi inizi, fungendo da termometro quasi-politico del cinema popolare;
Non solo: ormai Fast & Furious è uno dei quattro cavalieri del cinema action (insieme a 007, Mission Impossible e John Wick), e ha acquisito archetipi semi-nuovi come la “trama turistica”, il “cast stellare”, il capitolo diviso in due parti.
Mai confondere la cioccolata
Come promesso: la differenza tra saga e franchise.
“Saga” è un termine narrativo e si riferisce a una storia lunga, spesso incentrata su personaggi perduranti, raccontata attraverso diversi capitoli.
“Franchise” è un termine economico e si riferisce a un modello di business.
Un franchise può nascere e sovrapporsi a una saga (vedi Star Wars, prima e dopo Disney), ma riguarda soprattutto un insieme di operazioni commerciali atte a valorizzare il proprio marchio. Fast & Furious diventa un franchise più o meno da quando inizia a parlare di “famiglia”, che nei film delimita un insieme di personaggi, mentre a Hollywood delimita un insieme crescente di attori sempre più di alto profilo.
Oltre alla trinità della serie, Vin Diesel, Michelle Rodriguez e lo scomparso Paul Walker, ci sono anche: Kurt Russell, Rita Moreno, Helen Mirren, il rapper Ludacris, Charlize Theron, John Cena, Jason Statham e Dwayne Johnson (con il loro spin-off, Hobbes & Shaw), Jason Momoa, Gal Gadot, Brie Larson. Non sempre tutti insieme, molti in stile Marvel Cinematic Universe: una comparsata o due e passa la paura.
L’importante è fare parte del franchise, con cui l’attor* instaura un rapporto simbiotico: il marchio si potenzia, la produzione gonfia i finanziamenti, migliorano lo stipendio e le PR dell’attor*.
La compagnia dell’anello ferroviario
Facciamo un esperimento: se vi chiedessi qual è, nella trilogia del Signore degli anelli, il capitolo con il fosso di Helm, e quale quello con il Balrog, sapreste rispondermi? Probabilmente sì.
Con Mission Impossible (6 film, quasi 7, dal 1996) le cose si fanno più complicate, ma non - ehr - impossibili. Qual è il capitolo con la scena all’Opera di Vienna? Quale quello con Jean Reno, e quale con Henry Cavill? E il capitolo con la scalata del grattacielo e la tempesta di sabbia?
Ma è con F&F che la nebbia, almeno per chi vi scrive, si fa più densa: qual è il capitolo in cui derubano la banca di un malavitoso a Rio De Janeiro? Quale quello in cui scopriamo che Dom Toretto ha un fratello? Quale quello in cui scopriamo che ha un figlio? E qual è il capitolo con l’addio a Paul Walker?
Con un simile numero di film, minore è la qualità dei capitoli della saga e più è difficile identificarli singolarmente. Ad aiutarci, una volta, erano i volti degli attori che cambiavano, ovvero quelli dei cattivi, ma anche in questo F&F non aiuta. Il cattivo riconoscibile di turno, infatti, impiega in media un film (Dwayne Johnson, Jason Statham, John Cena) o due (Charlize Theron) per ricevere qualche tipo di grazia morale o cogliere una convenienza narrativa e unirsi alla banda degli eroi, mentre un cattivo-marionetta a caso viene deputato a subire le conseguenze delle malefatte di entrambi, pagando con la vita o con l’oblio.
Anche questo fa parte del rapporto simbiotico tra attore e franchise. Dopo essere riusciti a coinvolgere l’n-esimo tal dei tali nel ruolo del villain, infatti, non conviene a nessuno sfruttarlo per un solo film. Meglio “convertirlo” velocemente e furiosamente in collaborazionista (dei buoni) e garantirgli uno spazio variabile nelle puntate successive.
L’idea si sposa perfettamente con le esigenze di certe muscolose star di Hollywood, talmente star che, da contratto, non accettano di girare scene di combattimento in cui vengono sopraffatt*. Se ci importasse qualcosa della trama, ci verrebbe in mente che anche un buono, ogni tanto, dovrebbe essere sopraffatto, prima di rialzarsi e di farcela, alla fin fine. Ma certi problemi lasciamoli ai Transformers (la cui saga tenta di rinascere con Il Risveglio, in sala dal 7 giugno), o a Godzilla x Kong, dove a darsele e a prenderle sono robot e kaiju, senza che nessun attore tema per la sua immagine.
Paese che vai, soldi che trovi
Il genere dei blockbuster d’azione non può contare su temi trasversali o codici innati come il western, l’horror o la fantascienza. È il genere delle storie di uomini e donne che fanno cose folli per sventare piani malvagi di altri uomini e donne, che avrebbero conseguenze catastrofiche per l’ordine costituito.
In assenza di tasselli altrimenti caratteristici come disastri naturali, governi distopici, profezie pre-colombiane o invasioni aliene, l’arena in cui questi uomini e donne si danno battaglia diventa fondamentale per l’immaginario. Per questo, i film d’azione ad alto budget sono costruiti e (talvolta) ricordati anche in virtù delle loro location.
Non a caso ho parlato di “trama turistica”, perché da possibile è diventato prima auspicabile e infine obbligatorio che la produzione assembli, sin dalla fase di sceneggiatura, una storia che tocchi quanti più luoghi famosi riesca coerentemente a toccare. E se non ci riesce coerentemente, va bene lo stesso.
È difficile non accorgersi di tendenze geografiche con cui, in certi periodi, terroristi e hacker del grande schermo organizzano colpi in determinati luoghi. Roma va sempre forte, come l’Italia in generale: la capitale ha figurato nel penultimo 007 (nell’ultimo c’è Matera), figura in Fast X e figurerà nel prossimo Mission Impossible: Dead Reckoning Parte I (in uscita a luglio).
Altra palese infatuazione degli action movie è stata quella per gli Emirati Arabi: sia Mission Impossible che Fast & Furious hanno scalato, a mano o su ruote, grattacieli di Dubai e Abu Dhabi rispettivamente nel quarto (Ghost Protocol, fine 2011) e settimo capitolo (Furious 7, aprile 2015 ma con ritardo dovuto alla scomparsa di Paul Walker). Persino Star Wars VII (fine 2015) è stato girato nel deserto di Rub’ al-Khali, sotto la giurisdizione di Abu Dhabi.
Non si tratta di tendenze casuali, basate solo sull’imitazione di un esempio anticipatore. Si tratta di questioni economiche, che incrociano l’industria cinematografica con quelle di turismo e cultura, attraverso la capacità di elargire finanziamenti con la prospettiva di un ritorno d’immagine. E ciò non tocca solo il cinema ma anche, per esempio, lo sport, dove l’onda lunga degli Emirati si è sollevata con l’organizzazione dei Mondiali di calcio in Qatar.
Era necessario tutto questo preambolo per giudicare Fast X?
Necessario, no. Utile, forse. E non per giustificarlo (lungi da me) o condannarlo (non c’è bisogno di Severo ma Giusto), ma per capirlo.
Capire perché, spogliato di location colorate, volti stra-noti e continui flashback con abuso di ret-con (un vizio del franchise), di Fast X resta una fotografia sbiadita, con inseguimenti poco croccanti e un cuore di valori vetusti. Valori per cui, ad esempio, se una donna combatte contro un uomo, potete scommettere la vostra Lamborghini che gli darà una ginocchiata sulle palle; se il combattimento è in casa, probabilmente, userà pentole e altri utensili da cucina.
Non è facile trovare qualcosa per distinguere questo capitolo, simile nei difetti e scarico nei pregi, dai suoi predecessori, di cui era già difficile ricordare l’identità o l’ordine cronologico. Per provare questo punto: ad eccezione della prima e dell’ultima, nessuna delle foto nel corpo di quest’articolo proviene da Fast X; qualcuna viene dai predecessori, una dal videogioco di guida Forza Horizon 5.
Il decimo capitolo si distingue solo per un “dettaglio”: essendo la prima parte di un finale in due (o tre, a sentire Vin Diesel) parti, può permettersi di farci credere che le cose stiano andando male sul serio, senza affannarsi a disfare tutto nel tempo di una sola pellicola; immaginate se Gandalf dovesse tornare alla fine della Compagnia dell’Anello. Nell’aderire, in compagnia dei prossimi Mission Impossible e Spiderman: Across the spider-verse, a quest’altra tendenza riemersa di recente, finanche per ragioni poco narrative, il film finisce per inserire nel motore un po’ di conflitto.
Ma è troppo poco, troppo tardi.
Fine della parte uno (di uno) dell’articolo.
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